Ecco una pittura acida, urticante, disincantata. Una pittura efficace nella sua sostanza d’immagine, quasi un gesto essenziale e sgarbato che somiglia allo schiaffo benefico che il soccorritore somministra a una persona svenuta…
Silvano Spelta, infatti, ci colpisce con la sua pittura direttamente in viso, cerca il risveglio diretto della nostra attenzione assopita, ci mostra brutalmente l’essenza che si nasconde nell’apparenza, e denuncia il vuoto che sta dietro alle patine di plastica delle milanodabere e delle viedellaspiga, alle teche eccessive del lusso e del glamour in questa nostra città (in questo nostro mondo) di valori distorti e infondati.
Ci mostra la luce cruda dell’effimero che rimbalza dai riflessi delle insegne e delle vetrine, si frantuma e si ricompone in un intreccio inestricabile tra realtà e finzione, nella miseria morale e nel cinismo che traspare dalla mistica contemporanea dell’ostentazione.
Parole grosse? Forse. In fondo si tratta solo di quadri. Però guardate con quale capacità di suggestione e di persuasione gli abiti di queste persone-manichini si volgono in vuota spoglia, in sudario, in assenza. Dove comincia la carne, dove finisce la plastica? Dov’è finita la vita vera, ricoperta dagli ologrammi illusori della nostra città della moda?
La pittura insomma qui è metafora, è affilata interpretazione morale. È il visivo che diventa assorta e preoccupata cultura dell’oggi.
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